Bernard-Marie Koltes, autore del monologo di Favino a Sanremo: il genio e la parola
“Il mio reale milieu è una via di mezzo tra l’hotel per immigrati e l’hotel ad ore. Le mie radici non esistono…”. Questa la confidenza di uno dei più grandi drammaturghi francesi degli anni ’80, Bernard Marie Koltès, nato a Metz nel 1948 e prematuramente scomparso nel 1989, malato di AIDS.
Una voce lancinante e vertiginosa nel deserto della scrittura drammatica contemporanea. Già citando i titoli delle sue opere, “Retour au désert”, “Combat de nègre et des chiens” e “Dans la solitude des champs de coton “, si avvertono i sintomi di un isolamento, in tema con una cultura da Linea dell’Ombra. Le sue collaborazioni artistiche vantano nomi come Chereau, Michel Piccoli, Jacqueline Maillar, personalità sempre un tantino defilate rispetto ala cultura di massa.
Koltès è sempre scappato ma mai per paura: è andato via dal conformismo espressivo; ha contestato il manierismo e minimalismo della parola con affermazioni molto pregnanti. Un vocabolo o una sintesi incidono poco.
Per Koltès una parola prende forma e significato solo attraverso un “tessuto di parole”, un ritmo di altri fonemi, condensato o seriale che sia… la spiegazione tende all’infinito. La grandezza di questo autore è la sottile tensione verso un lirismo letterario quasi classico in cui, tuttavia, temi come la violenza, l’isolamento, il male, l’incomunicabilità si trasformano in poesia. Chi ha potuto assistere ad almeno un’opera di Koltès in teatro ne sarà rimasto sicuramente rapito ed affascinato.
I testi sembrano grondare di letteratura ma qui diventano reali, corporali e i personaggi non hanno altro tempo ed altro luogo se non quello delle parole che dicono: esse “nascono” in quel momento.
E la drammaticità dei lunghi monologhi si concretizza in quello spazio-simbolo che è la scena.
Appassionato lettore di Conrad, pose sempre al centro delle sue opere molti di quei luoghi privilegiati, “metafore della vita o di un aspetto della vita…”: paesaggi sospesi tra i continenti e le razze, oscuri docks, labirinti di metropolitana, un lago ghiacciato, la cavità di un albero,una caverna.
E la Voce che fuoriesce da questi luoghi diventa anch’essa metafora da cui l’autore prende gradualmente, la “sostanza intima”, quel “sibilo del Vento interiore”.
Non importa capire la lingua di un posto dove si sta o si capita per caso: serve piuttosto osservare e sentire ciò che quel posto e chi ci vive comunica con i rumori, i movimenti del corpo, gli odori…
“…ho corso, corso, corso, perché stavolta, svoltato l’angolo, non mi trovassi in una strada vuota di te, perché stavolta non ci fosse soltanto la pioggia, perché stavolta dall’altra parte io potessi ritrovare te e avere il coraggio di gridare: compagno..! il coraggio di prenderti il braccio, compagno!, il coraggio di accostarmi a te, compagno, compagno, fammi accendere…” dice in una delle sue opere più rappresentate in teatro, “La notte poco prima della foresta”, testo insolito dal punto di vista della ‘scrittura’, senza punteggiatura, soste o altro..;qui soprattutto ci dà i “suoni” delle voci più che il “senso” delle parole.
Ed in teatro queste metafore sono vive, corporali, tangibili lasciando però sempre delle domande, l’attesa, la sensazione di un viaggio nell’intimo.
In Koltès, personaggi senza Nome.
Ognuno di loro potrebbe essere “chiunque” di noi:
gente che fatica per riuscire a “nascere”, a ritrovare le proprie radici.
Eravamo negli anni 80 quando questo giovane genio della letteratura e del teatro diffondeva i suoi pensieri,bruscamente interrotti da una precoce morte.
Ora, quanti, ovunque, sono “impegnati” in questa fatica!
E quanti sono ricacciati da chi non accetta la loro Voce, fatta di rumori, odori, movimenti …
Non siamo ancora capaci di ascoltare “i suoni” delle Voci dei tanti che ci attorniano, diversi da noi.
Non abbiamo ancora inteso cosa può essere la “parola”.